Nei procedimenti di separazione e di divorzio, l’assegnazione della casa dovendo rispondere all’esigenza di conservare l’ “habitat” domestico inteso come centro degli affetti, degli interessi e delle consuetudini in cui si esprime e si articola la vita familiare, è consentita unicamente con riguardo a quell’immobile che abbia costituito il centro di aggregazione della famiglia durante la convivenza, con esclusione di ogni altro immobile di cui le parti avessero la disponibilità e che comunque usassero in via temporanea o saltuaria.(1)

La questione si pone, sostanzialmente, con riferimento a tutti quei casi in cui non risulti in modo inequivoco che, prima del conflitto familiare, vi fosse una stabile e continuativa utilizzazione dell’abitazione stessa da parte del nucleo costituito da genitori e figli.

Va evidenziato che la qualificazione giuridica di “casa familiare” postula che tale destinazione sia stata impressa dai coniugi all’abitazione suddetta, non solo in astratto con l’acquisto in comunione, ma anche in concreto, mediante la loro stabile convivenza nell’immobile.

Conformemente a tale orientamento giurisprudenziale il Tribunale di Velletri con una recente sentenza ha disposto la revoca dell’assegnazione della casa coniugale alla moglie, quale genitore collocatario della prole minorenne. Dall’istruttoria di causa, infatti, era risultato provato che la casa suddetta non poteva essere qualificata come “casa familiare”, in quanto la coppia già prima della separazione non abitava in modo stabile e continuativo la casa coniugale, tant’è che il figlio minorenne aveva sempre frequentato e ancora frequentava la scuola e tutte le attività extra didattiche vicino la casa dei nonni ove, in concreto, viveva in modo stabile e continuativo sin dalla più tenera età.(2)

(1) Corte Cassazione n. 3331- 19.02.2016.

(2) Tribunale Velletri n. 1305 – 13.04.2017

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